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L’ISOLA DEL MONDO ALLA CONQUISTA DEL PIANETA

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Carlo Terracciano, L’Isola del Mondo alla conquista del pianeta, Anteo Edizioni 2012

 

Prefazione di Claudio Mutti  

 

 

Who rules East Europe commands the Heartland: who rules the Heartland commands the World-Island: who rules the World-Island commands the World“. Il termine World-Island (“Isola del Mondo”), che compare in questa celeberrima formula di Sir Halford John Mackinder (1861-1947), designa la massa continentale costituita da Europa, Asia ed Africa e definita complessivamente “Continente Antico” dalla terminologia geografica.

Il geopolitico dell’imperialismo britannico enunciò la sua teoria in un saggio del 1904 intitolato The Geographical Pivot of History (1), nel quale venivano indicate le tre sedi naturali della potenza mondiale. La prima, situata nel cuore del continente eurasiatico, è quell'”area perno” (Pivot Area) – ribattezzata “territorio centrale” (Heartland) dopo la prima guerra mondiale – il cui dominio assicura l’egemonia sull'”Isola del Mondo” e quindi su tutto il pianeta. La seconda è quella “mezzaluna interna” (Inner Crescent) che svolge una funzione protettiva nei confronti dell'”area perno”; si estende dall’Europa occidentale fino alla penisola di Kamciatka, attraverso il Vicino Oriente, l’India, l’Indocina e la Cina. La terza, infine, è la “mezzaluna esterna” (Outer Crescent), la fascia più esterna del sistema concentrico che circonda l'”area perno”; coincide con l’Australia, le Americhe e le masse oceaniche che le circondano.

Il titolo del presente saggio di Carlo Terracciano (costituito di articoli apparsi negli anni Ottanta sul mensile “Orion”) (2) non deve però trarre in inganno, poiché nel vocabolario dell’autore il sintagma mackinderiano “Isola del Mondo” non serve a indicare il Continente Antico, bensì l’America Settentrionale, la cui più evidente caratteristica è appunto l’insularità: “gli USA – scrive Terracciano – godono della situazione privilegiata di stato-isola, e su scala continentale”.

Questa riflessione circa il carattere ideale che l’insularità rappresenta per una potenza talassocratica ha dietro di sé una lunga storia, la quale risale al V sec. a. C., quando Tucidide, sottolineando i vantaggi derivanti ad Atene dalla supremazia marittima, fa esclamare a Pericle: “Gran cosa è il dominio del mare!” (Méga gàr tò tês thaláttes krátos!) (3). Nella stessa demegoria, il Pericle tucidideo intende persuadere gli Ateniesi che il controllo del mare basta a garantire la vittoria e che perciò, nel quadro strategico dell’imminente conflitto con Sparta, il territorio dell’Attica riveste una scarsa importanza. Tuttavia agli occhi di Pericle la talassocrazia di Atene non è perfetta, poiché la condizione ideale sarebbe costituita da una posizione strategica insulare: “Se fossimo abitanti di un’isola, chi sarebbe più inespugnabile di noi?” (4).

Lo stesso motivo ricorre nella Athenaion politeia dello Pseudosenofonte: “Se gli Ateniesi abitassero un’isola e fossero dominatori del mare (thalassokràtores), sarebbe loro possibile danneggiare gli altri, qualora lo volessero, senza subire nulla finché avessero l’egemonia sul mare: né la devastazione del loro territorio né l’invasione dei nemici. (…) Oltre a ciò, anche da un altro timore sarebbero liberi: la polis non sarebbe mai tradita dagli oligarchi, né le porte verrebbero aperte, né i nemici fatti entrare. Come infatti potrebbe accadere ciò, se abitassero un’isola? Né vi sarebbe alcuna rivolta contro la democrazia, se abitassero un’isola. Adesso invece, se si rivoltassero, si rivolterebbero riponendo speranza nei nemici, pensando di farli arrivare per via di terra. Ma se abitassero un’isola, di ciò non avrebbero da temere” (5).

Fatto sta che l’Attica non è un’isola e che la guerra del Peloponneso terminò con la sconfitta della talassocrazia ateniese.

 

La potenza statunitense, insediata su un territorio insulare cento volte più grande dell’Attica a cavallo tra due oceani, dispone delle prerogative necessarie per poter esercitare un’egemonia mondiale. Se ne rese lucidamente conto l’ammiraglio A. T. Mahan, “profeta armato” (così lo definisce Terracciano) della geopolitica americana del XIX secolo, il quale in The influence of sea power upon history. 1660-1783 (6) mostrò l’influenza esercitata dalla potenza marittima (sea power) nei due secoli precedenti. Successivamente, nello stesso anno in cui Mackinder dava alle stampe The Geographical Pivot of History, Mahan pubblicò un saggio che avrebbe richiamato l’attenzione di Carl Schmitt.

“In un saggio del luglio 1904 – scrive nel 1942 Carl Schmitt in Land und Meer – Mahan parla delle possibilità di una riunificazione fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America. La ragione più profonda di tale riunificazione non è da lui ravvisata nella comunanza di razza, lingua e cultura. Egli non sottovaluta affatto questi punti di vista spesso addotti da altri autori, ma li considera soltanto utili elementi aggiuntivi. Decisiva gli appare piuttosto la necessità di mantenere il dominio anglosassone sui mari del mondo, il che può avvenire solo su base ‘insulare’, mediante l’unione fra le due potenze angloamericane. In seguito allo sviluppo moderno, l’Inghilterra stessa è diventata troppo piccola, e quindi non è più isola nel senso inteso finora. Sono piuttosto gli Stati Uniti d’America la vera isola contemporanea. E’ un fatto di cui non ci si è ancora resi conto, sostiene Mahan, a causa della loro dimensione, ma che corrisponde ai parametri e alle proporzioni attuali. Ora, il carattere insulare degli Stati Uniti dovrebbe garantire la salvaguardia e la prosecuzione del dominio sul mare su base più ampia. L’America sarebbe, insomma, l’isola maggiore che perpetuerebbe la conquista britannica del mare e la proseguirebbe su più vasta scala come dominio del mare angloamericano sul mondo intero” (7).

La coscienza dell’insularità, afferma Terracciano, favorisce negli statunitensi l’insorgere di una sorta di mania di persecuzione: la potenza egemone del continente nordamericano avverte il senso di un’incombente minaccia, che proverrebbe tanto dall’Atlantico quanto dal Pacifico. Si tratta di una specie di paranoia, che induce gli Stati Uniti a perseguire il controllo geopolitico sia della sponda europea sia di quella asiatica. Infatti “la loro ambizione non si fermava alle isole del Pacifico, ma pretendeva di toccare la sponda asiatica e schiacciare l’avversario. Essi non disponevano soltanto dei mezzi per raggiungere questo obiettivo, ma, in Asia come in Europa, potevano servirsi a loro discrezione di indispensabili complici sulle teste di ponte già installate. Per una potenza marittima, il mare è lo spazio vitale e non una frontiera. Le sue frontiere si trovano sulle sponde opposte” (8).

Simultaneamente, l’esistenza insulare ha infuso nei nordamericani quel sentimento di inattaccabilità che promana dalle parole di Thomas Jefferson: “Per nostra fortuna la natura ed un vasto oceano ci separano dalle devastazioni sterminatrici di un quarto del globo”. Così la fortezza insulare inespugnabile è la “terra promessa” separata dalle nazioni corrotte che abitano il resto della terra: un elemento fondamentale di quella parodistica teologia che informa la visione americana del mondo e che ispira l’imperialismo statunitense.

 

 

1. “The Geographical Journal”, vol. xxiii, n. 4, aprile 1904, pp. 134-135.

2. Altri articoli sono stati raccolti in: Carlo Terracciano, Nel fiume della storia (con una prefazione di Aleksandr Dugin, una biografia dell’Autore redatta da Alessandra Colla e un saggio di Claudio Mutti su Carlo Terracciano redattore di “Eurasia”), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012.

3. Tucidide, I, 143, 4.

4. Tucidide, I, 143, 5.

5. Tucidide, II, 14-15.

6. The influence of sea power upon history. 1660-1783, Sampson Low and Co., Londra 1890.

7. Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano pp. 103-104.

8.    Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance. La géopolitique aujourd’hui, Le Labyrinthe, Arbajon 1996, p. 93.

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